Obbligo di repechage, valutazione estesa alle posizioni lavorative future
La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 12132 dell’8 mag-gio 2023, si è pronunciata in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e in particolare sul c.d. obbligo di repêchage. La Suprema Corte ha statuito che il datore di lavoro, prima di procedere al licenziamento del lavo-ratore, è tenuto a verificare non solo l’esistenza di posizioni lavorative vacanti alla data del licenziamento, ma anche di quelle che saranno disponibili “in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso”.
Categoria: Novità giurisprudenziale
Autore:
avv. Ridolfi Nicolò
Responsabile dipartimento:
Avv. Marco Pegoraro
Imprese: Diritto del lavoro e delle relazioni industriali
L’obbligo di repêchage è un istituto di natura giurisprudenziale, consistente nell’obbligo posto a carico del datore di lavoro di verificare la possibilità di ricollocazione del lavoratore in esubero all’interno dell’organico aziendale. Detto obbligo è legato alle fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ossia quel licenziamento intimato per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, ovvero determinato dalla necessità di sopprimere una determinata posizione e/o reparto a cui è addetto il singolo lavoratore.
Detto altrimenti, il datore di lavoro che intenda licenziare un lavoratore per giustificato motivo oggettivo deve preventivamente verificare l’impossibilità di ricollocare il prestatore in altre posizioni.
Secondo la giurisprudenza, affinché un licenziamento per giustificato motivo oggettivo possa ritenersi legittimo devono coesistere due requisiti:
- le ragioni inerenti all’attività produttiva (es. riorganizzazione, ristrutturazione aziendale, soppressione di un reparto o di una mansione, ecc.);
- l’impossibilità di repêchage, ovvero l’impossibilità di ricollocare il lavoratore all’interno della struttura aziendale.
L’ambito di applicazione dell’obbligo di repêchage non è limitato alla singola unità produttiva dove il lavoratore è impiegato, bensì è esteso all’intero complesso aziendale. Inoltre, la verifica circa la possibilità di ricollocamento del lavoratore deve essere eseguita in ordine a mansioni (anche inferiori a quelle svolte dal lavoratore) che “siano compatibili con il bagaglio professionale del prestatore (cioè che non siano disomogenee e incoerenti con la sua competenza) ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza” (ex plurimis Cass. Civ., sez. lav., 3 dicembre 2019). A temperamento di tale principio, la giurisprudenza ha anche precisato che l’assolvimento dell’obbligo di repêchage non può imporre al datore di lavoro di modificare o alterare la struttura organizzativa aziendale.
Un’importante tematica in materia è quella dell’onere della prova, ossia sull’individuazione della parte su cui ricade l’onere probatorio in merito all’assolvimento (o al mancato assolvimento) dell’obbligo di repêchage. Sul punto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha assunto diversi orientamenti nel corso degli anni.
Fino al 2016, l’orientamento giurisprudenziale prevalente in tema di obbligo di repêchage, pur riconoscendo un generale onere probatorio in capo al datore di lavoro (in virtù del fatto che su di esso ricade l’obbligo di dimostrare la sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento), riteneva che gravasse in capo al lavoratore, che impugnava il licenziamento, l’onere di (quantomeno) indicare l’esistenza di altre specifiche posizioni lavorative nelle quali egli avrebbe potuto essere utilmente collocato in alternativa al licenziamento (ex plurimis Cass. Civ., sez. lav., 8 febbraio 2011, n. 3040; Cass. Civ., sez. lav., 6 ottobre 2015, n. 19923).
Sulla base di tale primo orientamento, l’onere probatorio in capo al datore di lavoro in merito all’impossibilità di repêchage sorgeva esclusivamente a fronte della specifica allegazione da parte del lavoratore dell’esistenza di altri posizioni lavorative ove poter essere utilmente ricollocato.
A partire dal 2016, la Corte di Cassazione, tornata a pronunciarsi sul tema, si è discostata dal precedente orientamento, affermando che “spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente” (ex plurimis Cass. Civ., sez. lav., 22 marzo 2016, n. 5592; Cass. Civ., sez. lav., 13 giugno 2016, n. 12101).
Tale ultimo orientamento giurisprudenziale si è consolidato e cristallizzato nel tempo (v. Cass. Civ., sez. lav., 11 novembre 2022, n. 33341), sicché oggi deve ritenersi che, diversamente rispetto al passato, sul lavoratore non gravi alcun onere di indicare le posizioni lavorative alternative cui avrebbe potuto essere adibito, evitando così di subire il licenziamento. Conseguentemente, l’onere di provare l’impossibilità del repêchage grava interamente in capo al datore di lavoro, e potrà essere assolto mediante la prova (anche in via presuntiva) che tutti i posti di lavoro presenti in azienda sono stabilmente occupati e che, successivamente al licenziamento, per un congruo periodo di tempo, non sono state effettuate nuove assunzioni.
Recentemente, la Corte di Cassazione, si è nuovamente pronunciata in ordine all’obbligo di repêchage, estendendone l’ambito temporale di applicazione e conseguentemente aggravando l’onere probatorio posto in capo al datore di lavoro.
In particolare, la Corte di Cassazione, sezione Lavoro, n. 12132 dell’8 maggio 2023, ha esteso l’obbligo di repêchage stabilendo che “il datore di lavoro, nel valutare le possibilità di ricollocazione del lavoratore prima di procedere al suo licenziamento, debba prendere in esame anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora coperte, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso”; senza tuttavia chiarire cosa debba intendersi per “arco temporale del tutto prossimo”. Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, al momento dell'intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro non aveva tenuto conto delle dimissioni rassegnate da due dipendenti che svolgevano mansioni analoghe a quelle del dipendente licenziato, con un termine di preavviso destinato a concludersi in un arco temporale brevissimo e con conseguente necessità di provvedere alla loro sostituzione.
Alla luce della suddetta sentenza, appare evidente l’aggravamento dell’onere probatorio in capo al datore di lavoro, il quale, al fine di assolvere l’obbligo di repêchage, non dovrà limitarsi a prendere in considerazione eventuali posizioni lavorative libere alla data del licenziamento del prestatore, ma dovrà considerare anche tutte quelle posizioni che sebbene risultino occupate al momento del licenziamento “si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo”.
Appare opportuno concludere evidenziando che la violazione dell’obbligo di repêchage comporta l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Si rende quindi imprescindibile per il datore di lavoro valutare in maniera molto approfondita l’esistenza (anche futura, tenuto conto della novità giurisprudenziale sopra citata) di posizioni alternative cui poter adibire il lavoratore in esubero quale alternativa al licenziamento.